Vitamina D e prevenzione della demenza

Vitamina D e demenza

L’integrazione di vitamina D potrebbe aiutare a prevenire e a ridurre il rischio di demenza in persone senza fattori di rischio genetici o problemi di memoria già in atto.

È quanto suggerisce una nuova ricerca condotta su oltre 12 mila persone negli USA dai ricercatori dell’Hotchkiss Brain Institute dell’Università di Calgary in Canada in collaborazione con i ricercatori dell’Università di Exeter nel Regno Unito.

Nello studio il team ha analizzato la presenza di eventuali correlazioni tra supplementazione di vitamina D e demenza in 12.388 partecipanti con un’età media di 71 anni, registrati nel database del National Alzheimer’s Coordinating Center, i quali non soffrivano di demenza.

I ricercatori hanno riscontrato il 40% in meno di diagnosi della malattia in 4.637 persone, corrispondenti al 37% del totale, che assumevano integratori di Vitamina D.

La demenza compare più tardi nelle persone che assumono integratori di Vitamina D

 

“La demenza compare più tardi tra le persone con una storia di assunzione di comuni integratori di vitamina D e l’associazione appare più forte tra le persone senza fattori di rischio genetici o difficoltà di memoria e di pensiero esistenti” afferma la prima autrice Maryam Ghahremani del Dipartimento di psichiatria alla Cumming School of Medicine dell’Università di Calgary (Canada).

“In generale, abbiamo scoperto evidenze che suggeriscono che una precoce supplementazione potrebbe essere utile prima della comparsa del declino cognitivo”, ha dichiarato in un’intervista il ricercatore Zahinoor Ismail, MD, del Hotchkiss Brain Institute dell’Università di Calgary.

Nel corso del follow up di 10 anni, tra tutti i partecipanti, 2.696 persone sono andate incontro a demenza, ma tra questi il 75% non aveva assunto vitamina D.

Gli effetti benefici della vitamina D si sono infine rivelati significativamente più elevati nelle donne rispetto agli uomini e nelle persone non portatrici del gene APOEe4, noto fattore di rischio di demenza da Alzheimer.

La supplementazione di Vitamina D si arricchisce dunque di un’ulteriore evidenza di beneficio.

 

Fonti:
Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring 2023

BPCO: EFFETTI DELLA VITAMINA D SUI SINTOMI NEGLI INDIVIDUI DI MEZZA ETÀ

Il termine BPCO indica la BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva, una malattia polmonare progressiva caratterizzata da una persistente ostruzione delle vie aeree, che rende difficoltosa la respirazione.
La BPCO è di solito evolutiva e si associa ad un aumentata risposta infiammatoria cronica delle vie aeree e del polmone a particelle nocive o gas (1).

I principali sintomi di questo disturbo comprendono la tosse cronica, con produzione di catarro, il fiato corto (in particolare durante l’attività fisica), sibili quando si respira e un senso di costrizione al torace.
Si tratta di una malattia cronica e invalidante molto diffusa anche in Italia, ma spesso sottovalutata, a volte anche dal paziente, che ritiene la tosse cronica o difficoltà di respiro come sintomi comuni per un fumatore.
I sintomi della BPCO di solito peggiorano lentamente e la difficoltà respiratoria compare gradualmente nell’arco di diversi anni; tuttavia, nei casi più gravi, può arrivare a limitare le normali attività quotidiane (1).

Secondo un recente studio, pubblicato su Chronic Obstructive Pulmonary Diseases: Journal of the COPD Foundation, livelli più elevate di vitamina D in circolo si associano a una riduzione dei sintomi specifici di BPCO negli individui di mezza età (ma non in quelli di età più avanzata).
Queste conclusioni, che necessitano di ulteriori conferme, potrebbero aprire la strada a studi successivi di valutazione degli interventi di supplementazione vitaminica in questi individui (2).

Lo studio si basa sul presupposto che il deficit di vitamina D sia presente in un range percentuale di pazienti con BPCO compreso fra il 40% e il 70%; questo dato è di particolare interesse per quanto riguarda i possibili effetti della vitamina D sulla forza muscolare e le performance fisiche, come anche sulla riacutizzazione della malattia.
Livelli più elevati di vitamina D sono invece già stati associati in uno studio di piccole dimensioni ad un miglioramento della qualità della vita legata alla BPCO, anche se non sono ancora stati dimostrati miglioramenti sulla salute respiratoria.
Altri studi descrivono invece una riduzione della mobilità e della tolleranza allo sforzo in individui con deficit vitaminico D, documentati soprattutto in individui con BPCO di età meno avanzata (2).

I livelli di vitamina D, in sostanza, potrebbero riflettere un complessivo cattivo stato di salute, associato a un declino funzionale globale in presenza di BPCO. Livelli più bassi di vitamina D potrebbero quindi rappresentare un fattore di rischio modificabile che potrebbe essere associato ad un miglioramento della sintomatologia in individui giovani (2).

Le associazioni osservate nello studio fra il gruppo di mezza età, i livelli di vitamina D e i sintomi di BPCO potrebbero descrivere un fenotipo di pazienti più giovani, maggiormente sintomatici, da considerare come target di futuri trial di intervento sull’impatto della supplementazione vitaminica D sui sintomi di BPCO (2).

Fonte:

VITAMINA D: BENEFICI SUL SISTEMA SCHELETRICO DURANTE L’INVECCHIAMENTO

La vitamina D è un pro-ormone steroideo, liposolubile, assai conosciuto per il ruolo fisiologico di controllo dell’assorbimento intestinale di calcio e per il mantenimento dell’omeostasi di calcio e fosforo.
La vitamina D è fisiologicamente presente in due forme, il colecalciferolo (vitamina D3) e l’ergocalciferolo (vitamina D2).

L’80-90% della sintesi endogena di vitamina D si realizza nella cute in seguito all’esposizione alle radiazioni UV della luce solare; viene poi accumulata nel fegato e rilasciata in piccole dosi quando serve.
Una volta liberata, la vitamina D si lega a una proteina di trasporto che le permette di raggiungere i tessuti bersaglio, nei quali viene riconosciuta tramite un particolare recettore.

Molto interessanti sono gli effetti della vitamina D a livello muscolare e scheletrico.
Con l’invecchiamento si assiste a un progressivo declino della massa e della forza muscolare del corpo umano, denominato sarcopenia. Si tratta di un processo inevitabile che ha inizio attorno ai 40-50 anni, con ritmo che da lento, nei primi 10 anni circa, diventa incalzante a partire dai 60 anni.
Il processo di invecchiamento è anche associato a una variazione della composizione muscolare, con una maggiore percentuale di fibre lente (fibre a contrazione lenta che vengono reclutate in azioni muscolari di scarsa entità ma di lunga durata) rispetto a quelle veloci (fibre a contrazione veloce che intervengono nelle azioni muscolari rapide e intense).

Alcuni studi sul muscolo scheletrico in donne anziane in condizione di carenza di vitamina D hanno dimostrato il beneficio derivante dalla supplementazione di vitamina D, evidenziato dalla maggior presenza dei recettori ad essa associati.
Alcune evidenze suggeriscono inoltre che la ridotta funzionalità di questi recettori, associata all’avanzamento dell’età, possa contribuire ai processi di declino della massa e della forza muscolare, associati anche alla variazione della composizione muscolare con un aumento delle fibre lente.
I recettori della vitamina D sono infatti localizzati prevalentemente sulle fibre veloci.
Non stupisce quindi il fatto che la supplementazione di vitamina D possa migliorare lo sviluppo di forza nel soggetto anziano.

La correlazione fra vitamina D e sviluppo di forza trova inoltre fondamento nel ruolo della vitamina D nel mantenimento di calcio e fosforo, rientrando quindi direttamente nella regolazione della concentrazione e del tono muscolare.
Sulla base di questi studi risulta quindi chiaro un coinvolgimento della vitamina D nella regolazione di numerosi processi con forte impatto sulla funzione del muscolo scheletrico.

Numerose evidenze indicano inoltre come a una riduzione dei livelli di vitamina D nell’organismo si associ un aumento del rischio di fratture ossee correlate al progressivo deterioramento della struttura ossea associato all’invecchiamento.
È quindi nel sistema osteomuscolare nella sua complessità che va ricercata l’efficacia della vitamina D, sia nel contrastare osteopenia/osteoporosi/fratture, sia sarcopenia/atrofia.

Le dosi giornaliere di vitamina D normalmente consigliate in soggetti oltre i 70 anni di età per la prevenzione della sarcopenia e delle fratture ossee sono pari a 800 UI.

Fonte:
“Aminoacidi essenziali, metaboliti e vitamina D: interplay nella riabilitazione muscolare e metabolica”. Massimo Negro, Giuseppe D’Antona. Quaderni di Medicina e Chirurgia.

VITAMINA D: RESISTENZA AL CALORE E PERDITA DURANTE LA COTTURA

Il calore rende più appetibili alcuni alimenti, perché modifica la loro consistenza, il loro sapore e rende molti dei nutrienti maggiormente assimilabili dall’organismo.

La cottura inoltre abbatte la carica microbica, perché inattiva gli enzimi che degradano e trasformano le sostanze di cui è composto l’alimento, rendendolo conservabile più a lungo(1).

Cuocere un alimento porta d’altra parte un’inevitabile perdita di nutrienti, o perché questi interagiscono fra loro trasformandosi, denaturandosi e diminuendo così la loro disponibilità, o per fenomeni di diffusione, in seguito ai quali le sostanze solubili si disperdono nei liquidi di cottura.

Le perdite di ogni nutriente sono differenti e dipendono in generale dalla durata della cottura, dalla temperatura cui questa avviene e dal mezzo che trasferisce il calore (acqua, vapore, grasso o aria caldo).

Per ogni preparazione bisognerebbe scegliere la cottura che consente di conservare meglio le caratteristiche principali dell’alimento stesso, rendendo minime le perdite dei nutrienti più sensibili(1).

  • Cottura al vapore: permette di cuocere gli alimenti a contatto diretto con il vapore ma senza immergerli in acqua. Le perdite di nutrienti sono ridotte e colore, consistenza e gusto vengono preservati;
  • Cottura al forno: utilizza il calore secco. Le perdite di nutrienti sono poco rilevanti, soprattutto se il forno viene preriscaldato, perché l’aria calda raggiunge direttamente gli alimenti, provocando la formazione di una sottile crosta sulla superficie, che impedisce perdite di succhi e quindi di vitamine e sali minerali;
  • Cottura al forno a microonde: agisce sulle molecole di acqua contenute negli alimenti, sviluppando un calore che si propaga dall’interno verso l’esterno. Tale principio permette di ridurre i tempi di cottura, diminuendo quindi le perdite di nutrienti;
  • Bollitura: è importante utilizzare la minor quantità di acqua possibile, per ridurre al minimo le perdite di vitamine e minerali, abbastanza consistenti con questo metodo (ad eccezione di minestroni e zuppe, in cui il brodo viene utilizzato);
  • Stufatura: è una tecnica di cottura a fuoco basso, ma i lunghi tempi necessari determinano una discreta perdita di nutrienti, che tuttavia si ritrovano nel liquido di cottura;
  • Cottura alla griglia/alla piastra: le temperature molto elevate tendono a distruggere le vitamine sensibili al calore(2).

In generale, i principi nutritivi più sensibili durante la preparazione degli alimenti sono le vitamine, soprattutto quelle idrosolubili, le cui perdite durante la cottura sono abbastanza consistenti (anche fino al 50% per la vitamina C e al 70% per la vitamina B).

Le vitamine liposolubili risultano invece più resistenti e la loro perdita si aggira mediamente intorno al 25%(2).

La vitamina D è relativamente stabile al calore e viene trattenuta a temperature fino a 180° gradi anche durante la cottura, con una perdita di solamente il 20% del suo quantitativo iniziale.

Questo rende gli alimenti contenenti vitamina D adatti alla preparazione di piatti caldi e sani.

Tuttavia, anche se la vitamina D negli alimenti tollera il calore, è comunque sconsigliato cucinarli troppo a lungo(3), mentre sono da prediligere cotture brevi a temperature moderate.

Fonti:

  1. Calore e vitamine: scegliere bene il metodo di cottura per le verdure. Farmacista 33, sezione Nutrizione. Consultato in data 01/02/2021. http://www.farmacista33.it/calore-e-vitamine-scegliere-bene-il-metodo-di-cottura-per-le-verdure-/nutrizione/news–28885.html
  2. Guida ai metodi per la cottura degli alimenti. Progetto a cura di ANDID – Associazione Nazionale Dietisti
  3. Nutrizione degli esseri umani. Elmadfa, Leitzmann. 2015, p.392.

VITAMINA D: STORIA DEL RACHITISMO E DEGLI EFFETTI DELLA RADIAZIONE SOLARE

La storia della vitamina D non può prescindere dalla storia della manifestazione classica della carenza di vitamina D nell’organismo in fase di accrescimento, ovvero del rachitismo.

Le prime osservazioni del rachitismo risalgono al I-II secolo d.C., con descrizioni di bambini romani con deformità ossee che venivano attribuite a generiche carenze alimentari e igieniche.

È però con la Rivoluzione Industriale che i casi di rachitismo si moltiplicarono; la popolazione principalmente agricola si era infatti trasferita nelle città ed era costretta a vivere in vicoli stretti e bui, con un’atmosfera inquinata dal fumo industriale.

In questo periodo, in Paesi scarsamente esposti alla luce solare, il rachitismo si manifestò in proporzioni epidemiche, arrivando a colpire fino al 90% dei bambini delle classi povere nelle città industrializzate dell’Europa e del Nord America.

Alla fine del XVIII secolo alcuni medici avevano rilevato l’effetto benefico sulla malattia dell’olio di fegato di merluzzo, ma tale indicazione terapeutica aveva sollevato molte perplessità.

Nello stesso periodo venne ipotizzata anche un’associazione tra ridotta esposizione solare e rachitismo.

Venne infatti documentata una relazione fra la distribuzione geografica del rachitismo e l’entità della radiazione solare annuale, notando come i bambini del Terzo Mondo fossero meno soggetti al rachitismo rispetto ai bambini che vivevano nelle città industrializzate europee.

Da ciò venne ipotizzato che un’adeguata esposizione solare fosse alla base della prevenzione e della cura del rachitismo.

All’inizio del 1900 venne condotto un esperimento del tutto innovativo, curando bambini affetti da rachitismo mediante irradiazione con la luce ultravioletta prodotta artificialmente da una lampada a mercurio. Venne poi dimostrato che era sufficiente esporre i bambini rachitici alla luce solare per la cura della malattia.

Parallelamente, gli stessi brillanti risultati sul rachitismo ottenuti con la luce solare o ultravioletta si ottenevano sul fronte nutrizionale con l’olio di fegato di merluzzo. Venne pertanto ipotizzato che il rachitismo potesse essere dovuto a una carenza alimentare.

A seguito di alcuni esperimenti, venne attribuita un’azione antirachitica a un fattore denominato “vitamina D” (non trattandosi delle vitamine A, B e C e seguendo il puro ordine alfabetico).

La vitamina D venne quindi riconosciuta come un micronutriente essenziale.

Studi successivi dimostrarono che l’irradiazione di una varietà di sostanze e alimenti li arricchiva di proprietà antirachitiche, per cui, negli anni ’30, il governo statunitense iniziò una politica di fortificazione di vari cibi, eradicando in questo modo il rachitismo.

Sulla base delle precedenti osservazioni venne ipotizzato che l’irradiazione di una sostanza inattiva di natura lipidica determinasse la comparsa di un composto di vitamina D attivo.

Adolf Windaus, un chimico tedesco dell’Università di Gottinga, isolò la vitamina D3 dalla pelle di organismi vertebrati, ipotizzando che questa venisse naturalmente prodotta dalla cute; gli studi sulla vitamina D gli valsero il premio Nobel per la chimica nel 1928.

L’ipotesi che la vitamina D3 si formasse nella pelle come conseguenza dell’irraggiamento fu poi confermata 50 anni dopo.

 

Fonti:
Cianferotti, L., Marcocci, C. Vitamina D: la storia antica di un ormone moderno. L’Endocrinologo 11, 121–129 (2010). https://doi.org/10.1007/BF03344713

VITAMINA D: EVOLUZIONE DALLA PREISTORIA AD OGGI

La vitamina D è uno degli ormoni più antichi nella storia degli esseri viventi.

La sua storia evoluzionistica spiega il motivo per cui si sia sviluppata come uno dei principali regolatori del metabolismo minerale e scheletrico nei vertebrati.

Quattrocento milioni di anni fa i primi vertebrati che si avventurarono sulla terra dall’oceano dovettero affrontare un’enorme crisi.

Durante la loro evoluzione nell’ambiente acquatico ricco di calcio avevano sviluppato molteplici meccanismi per utilizzare questo elemento in processi cellulari e metabolici, essendo il calcio facilmente assorbito dalle branchie o attraverso le squame per osmosi. Il calcio era divenuto componente fondamentale dello scheletro degli animali marini.

I vertebrati marini che per primi si trasferirono sulla terraferma dovettero quindi sviluppare meccanismi per utilizzare le scarse quantità di calcio disponibili, allo scopo di continuare a mantenere i processi metabolici e cellulari calcio-dipendenti e fornire un adeguato quantitativo di questo elemento per la mineralizzazione scheletrica. Si sviluppò pertanto un meccanismo per assorbire il calcio presente nella dieta, mediante una stretta relazione tra sole e calcio, tesa a promuovere l’assorbimento intestinale del calcio.

È dimostrato infatti che la fotosintesi della vitamina D esiste da 750 milioni di anni in quanto presente in fossili viventi di quell’epoca. Tale meccanismo fotosintetico è stato mantenuto dai vertebrati sulla terraferma, allo scopo di produrre nella pelle, per azione dei raggi solari, la vitamina D3.

Nell’uomo, la pigmentazione cutanea si è rapidamente adattata in tempi geologici relativamente brevi a condizioni di diversa entità di irraggiamento ultravioletto. La duplice pressione selettiva della fotoprotezione e della produzione di vitamina D3 ha determinato una duplice variazione geografica. Allontanandosi dall’equatore, a partire da latitudini di 30°N, è l’aumentata necessità di produzione cutanea di vitamina D in condizioni di insufficienza di raggi ultravioletti che ha determinato una riduzione della pigmentazione cutanea. Viceversa, avvicinandosi all’equatore, la necessità di proteggere le ghiandole sudoripare da un eccesso di raggi ultravioletti ha determinato l’aumento della pigmentazione cutanea.

In movimenti migratori relativamente recenti, il mancato adeguamento della pigmentazione cutanea ha determinato la comparsa di sindromi carenziali in individui di origine africana viventi a latitudini superiori a 30°N.

Fonti:
Cianferotti, L., Marcocci, C. Vitamina D: la storia antica di un ormone moderno. L’Endocrinologo 11, 121–129 (2010). https://doi.org/10.1007/BF03344713

VITAMINA D: GLI ALIMENTI FORTIFICATI E IL LORO UTILIZZO

La vitamina D è un micronutriente importante per il benessere del nostro organismo che può essere sintetizzato dal nostro corpo attraverso l’esposizione della cute ai raggi ultravioletti del sole.

Nel mondo occidentale la carenza di vitamina D risulta essere particolarmente diffusa, riguardando fino all’80% della popolazione italiana(1), con particolare incidenza fra le donne in menopausa e gli anziani(2).

Ciò che potrebbe risultare sorprendente è che la carenza di vitamina D è più diffusa fra i Paesi del bacino del Mediterraneo rispetto ai Paesi del Nord Europa(2), una situazione che prende il nome di “paradosso scandinavo”. Infatti, sul piano teorico, la presenza di un ridotto irraggiamento solare dovrebbe portare ad una maggiore prevalenza di ipovitaminosi D nei paesi più lontani dall’Equatore(6)

Tuttavia alcuni paesi del Nord-Europa hanno intrapreso una politica di integrazione degli alimenti con vitamina D(2), determinandone livelli medi superiori rispetto a quelli riscontrabili nelle popolazioni mediterranee(3) che si affidano maggiormente all’esposizione solare per l’approvvigionamento di questo micronutriente.

È infatti possibile, all’interno dei territori della Comunità Europea, produrre e commercializzare alimenti addizionati di vitamine e minerali, in quanto tale pratica può aiutare a garantire un apporto adeguato di queste sostanze e quindi a ridurre il rischio di carenze(4).

Gli alimenti addizionati di vitamine e minerali sono disciplinati dal Regolamento (CE) 1925/2006, che riporta l’elenco delle vitamine e dei minerali ammessi insieme all’elenco delle relative fonti(5).

Tale Regolamento definisce inoltre regole relative all’etichettatura degli alimenti fortificati, con l’obbligo di riportare la quantità totale di vitamine/minerali aggiunti negli stessi, e definisce i livelli minimi e massimi di queste aggiunte, assicurando quantità significative ad ottenere un effetto benefico ma non tali da poter dare luogo a reazioni avverse per la salute, ad esempio in aggiunta all’apporto da altre fonti alimentari(4).

Fra gli alimenti fortificati in vitamina D più diffusi ci sono latte di soia, latte di mucca, succo d’arancia, cereali e farina d’avena.

È invece vietata l’aggiunta di vitamine e minerali per i prodotti alimentari non trasformati (in particolare frutta, verdura, carne, pollame e pesce) e per le bevande alcoliche(4).

 

Fonti:

VITAMINA D: DI QUANTA LUCE SOLARE HA BISOGNO IL NOSTRO CORPO PER PRODURNE IL GIUSTO QUANTITATIVO?

La luce del sole è la fonte naturale di vitamina D più importante per gli essere umani;
infatti, fino al 90% della vitamina D di cui abbiamo bisogno può essere prodotta dal nostro corpo attraverso l’esposizione diretta della cute alla luce solare (1).
La produzione endogena può però variare notevolmente in dipendenza da vari fattori, fra i quali spiccano la latitudine in cui ci si trova e il differente tipo di pelle.

L’autosintesi della vitamina D richiede radiazioni UVB con lunghezze d’onda comprese fra i 290 e i 315 nanometri, che si verificano tutto l’anno solamente nelle regioni al di sotto del 35° grado di latitudine.
A latitudini più elevate, l’intensità e la durata delle radiazioni sufficienti diminuiscono, quindi la formazione di vitamina D dipende dalla stagione (1).
L’Italia si estende fra i 36° gradi di latitudine del Capo Maluk nell’Isola di Lampedusa e i 47° della Vetta d’Italia, la cima montuosa più a nord della Alpi Aurine (2), quindi la produzione di vitamina D tramite la cute non è possibile tutto l’anno. Nel Nord Italia, ad esempio, l’autosintesi di questo prezioso micronutriente può avvenire solamente nel periodo compreso fra marzo e ottobre circa (1).

Anche nei periodi in cui la formazione di vitamina D è possibile, la quantità prodotta può variare da individuo a individuo a seconda del tipo di pelle.
Con il temine fototipo si indica la classificazione di ciascuna della categorie in cui può essere divisa la popolazione umana in base alla pigmentazione della pelle e alla sua reattività all’esposizione alle radiazioni ultraviolette dei raggi solari (3)(4).
Si distinguono sei diversi fototipi, di cui i più diffusi in Italia sono il III e il IV:

  • Fototipo III: persone con carnagione da mediamente chiara a leggermente scura, occhi castani o marroni, capelli da biondo scuro a castano;
  • Fototipo IV: persone con carnagione leggermente scura o olivastra, occhi da marrone a marrone scuro, capelli castano scuro.

Le persone con una pelle più scura producono generalmente meno vitamina D con la stessa quantità di luce solare rispetto alle persone con una carnagione più chiara. Il tempo necessario all’organismo per l’autosintesi della vitamina D è infatti maggiore quanto più forte è la pigmentazione della pelle e quanto più alto è il contenuto di melanina nella stessa (5).

La produzione di vitamina D dipende infine dal superficie del corpo che rimane esposta ai raggi solari.
Nei periodi in cui si indossano più vestiti, la porzione di cute in grado di assorbire i raggi UVB diminuisce, di conseguenza è necessario rimanere al sole più a lungo per produrre il quantitativo di vitamina D di cui abbiamo bisogno.

  • Nei mesi di marzo, aprile e ottobre la superficie di corpo esposta al sole è circa l’8%: viso e mani;
  • Nei mesi di maggio, giugno e settembre la porzione di cute esposta i raggi solari aumenta generalmente al 20%: viso, collo, parte delle braccia e mani;
  • Nei mesi li luglio e agosto è circa il 50% del corpo ed essere scoperto: viso, collo, gambe, braccia e mani.

In generale, al fine di produrre il quantitativo necessario di vitamina D, è ritenuto sufficiente un periodo di esposizione alla luce solare, con parte del corpo scoperto e in assenza di creme protettive, che varia dai 5 ai 25 minuti giornalieri (5).

 

Fonti:

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VITAMINA D: PERCHÉ È COSÌ IMPORTANTE IN INVERNO?

La vitamina D è una vitamina liposolubile fondamentale per il benessere del nostro organismo in quanto contribuisce a mantenere la normale funzione del sistema immunitario, la salute delle ossa e il buono stato della funzione muscolare.

La maggior parte della vitamina D di cui abbiamo bisogno, circa l’80-90%, viene prodotto dal nostro corpo attraverso l’esposizione diretta della cute alla luce solare. La restante parte, circa il 10-20%, viene assunta mediante l’alimentazione (1).

Per produrre il corretto quantitativo di vitamina D dovremmo esporci al sole almeno 15 minuti ogni giorno, lasciando scoperte alcune zone del corpo come viso, mani, parte delle gambe e delle braccia. Nel periodo invernale, a causa dell’abbassarsi delle temperature e della riduzione delle giornate di sole, spesso non è possibile farlo.

Inoltre, le radiazioni UVB con lunghezze d’onda da 290 a 315 nanometri, necessarie per l’autosintesi della vitamina D, non si verificano tutto l’anno ovunque, ma solamente nelle regioni al di sotto del 35° grado di latitudine (a sud di Creta). A latitudini più elevate, l’intensità e la durata delle radiazioni sufficienti diminuiscono, quindi la formazione di vitamina D diventa dipendente dalla stagione.
Nel Nord Italia ad esempio, che si trova circa a 45° di latitudine, la formazione di vitamina D tramite la cute è possibile solo nel periodo da marzo a ottobre circa (1).

Nei mesi da novembre a febbraio risulta quindi particolarmente importare sopperire al fabbisogno di vitamina D tramite altri canali, come ad esempio l’alimentazione. In accordo con quanto espresso dalla Società Italiana per la Nutrizione Umana (SINU), l’assunzione raccomandata di vitamina D per adolescenti e adulti è di 15 microgrammi al giorno, che aumentano a 20 al di sopra dei 75 anni (2).

Tuttavia, la dieta spesso contribuisce solamente in parte limitata al corretto approvvigionamento di vitamina D in quanto questo micronutriente è contenuto in quantità significative solo in pochi alimenti, quasi tutti di origine animale (1) (principalmente anguilla, aringa, sardina, salmone, carne di vitello)(3).
Anche seguendo un’alimentazione consapevole, spesso non è possibile coprire completamente il proprio fabbisogno di vitamina D con il cibo; si stima infatti che adulti e adolescenti assumano solamente da 2 a 4 microgrammi di vitamina D al giorno attraverso la nutrizione (4).

Nel periodo invernale quindi, se le nostre necessità di questa preziosa vitamina non riescono ad essere soddisfatte tramite l’esposizione alla luce o l’assunzione in alimenti, può essere utile ricorrere all’integrazione mediante prodotti dedicati.

Fonti:

 

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VITAMINA D: QUALI CIBI ASSUMERE PER ASSICURARSI IL MIGLIOR APPORTO DI QUESTO PREZIOSO NUTRIENTE

La vitamina D è un micronutriente fondamentale per il benessere del nostro organismo, il cui fabbisogno giornaliero può essere coperto in due principali modi.
La maggior parte della vitamina D di cui abbiamo bisogno, circa l’80-90%, viene prodotto dal nostro corpo attraverso l’esposizione diretta della cute alla luce solare. La restante parte, circa il 10-20%, viene assunta mediante l’alimentazione (1).
Nei periodi in cui è più difficile stare all’aperto, ad esempio nei mesi invernali, si dovrebbe prestare maggiore attenzione alla propria dieta per assicurarsi un apporto adeguato di questa vitamina.

 

Quanta Vitamina D dovremmo assumere attraverso l’alimentazione?

In accordo con quanto espresso dalla Società Italiana per la Nutrizione Umana (SINU), l’assunzione raccomandata di vitamina D per adolescenti e adulti è di 15 microgrammi al giorno, che aumentano a 20 al di sopra dei 75 anni (2). Non si riscontrano invece differenze basate sul sesso.
Il fabbisogno di vitamina D è espresso in colecalciferolo (vitamina D3: 1 microgrammo di colecalciferolo corrisponde a 40 unità internazionali di vitamina D).

 

Quali sono i principali cibi fonte di vitamina D?

Uno dei motivi per cui la dieta contribuisce solamente in parte limitata al corretto approvvigionamento di vitamina D è che questo nutriente è contenuto in quantità significative solamente in pochi alimenti, quasi tutti di origine animale (1).
Un alimento viene considerato ricco di vitamina D quando ne contiene almeno 1,5 microgrammi ogni 100 g.
Ma quali sono i principali alimenti contenenti vitamina D (3)?

 

Alimento Contenuto di vitamina D (in microgrammi per 100 g)
Anguilla 22
Aringa 12
Sardina 11
Salmone 8,4
Carne di vitello 5
Margarina 5
Tonno 4,2
Avocado 3,4
Funghi porcini 3,1
Uova 2,9

 

Come coprire il proprio fabbisogno di vitamina D con una dieta vegetariana/vegana?

Esistono pochi alimenti di origine vegetale ricchi di vitamina D, per cui per coloro che seguono una dieta di tipo vegetariano/vegano può essere più complesso coprire il fabbisogno giornaliero tramite l’alimentazione.
Oltre ad avocado e funghi (principalmente porcini, spugnole, gallinacci e champignon), una buona fonte di vitamina D è data dai licheni (sistemi simbiontici di alghe e funghi) (3).